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Si parla di sentenza storica, ed è senz'altro un giudizio che darà il suo notevole contributo alla libertà della rete ma, con moderazione e nel rispetto della sentenza, occorre considerare alcuni aspetti. L'impegno, o per meglio dire, il lavoro d'ingegno non deve essere turbato dalla sentenza spagnola che evidenzia come l'offrire link che rimandano ad altri contenuti - anche coperti da copyright, come succede nei P2P - non è illegale.

«Il sistema di links - si legge nella sentenza - costituisce la base stessa di internet ed una moltitudine di siti fanno ciò che si vuole impedire con questa causa». La parte più interessante espressa dal giudice Raúl N. García Orejudo, e citata su alcuni quotidiani italiani, recita testualmente: «le reti P2P, in quanto mere reti di trasmissione di dati tra privati, non feriscono alcun diritto protetto dalla legge sulla proprietà intellettuale». Ad essere "sconfitta" è la Sgae - la Siae spagnola - che chiedeva per via civile - e non penale - la chiusura del Elrinconddejesus.es e di altri siti di questo tipo che propongono ai propri visitatori collegamenti al download di film, musica, libri. Da sottolineare - si legge in rete - che questo sito P2P non ha pubblicità, e quindi non lucrava sui diritti altrui.

La sentenza è stata, come detto, definita storica perchè è la prima in Europa che tratta di scambio di file online, ed è fondamentale perchè potrebbe influenzare tutta la giurisprudenza comunitaria in materia.

Passate poche lune dalla turbolenta sentenza contro Google, in Spagna si apre uno spiraglio sulla libera diffusione di informazioni sul web, ma questa volta forse non tutto è condivisibile. Infatti, qui si parla di diritti d'autore e quindi perdita di quattrini per chi lavora d'ingegno producendo materiale che indubbiamente ha un costo di tempo e conoscenza atto a portare un introito non indifferente al produttore.

Siamo un Web di megacontenuti e micromessaggini, cercando quello che interessa approdiamo in remote destinazioni di lunghissimi articoli - con buone probabilità, quelli che cerchiamo - e di microcontenuti che non dicono niente. Twitter spinge e Google acconsente:  si parla che presto si avvicinerà il momento che vedremo le serp infestata di cinguettii di twitter e note di facebook. Ma perchè?

Forse non ho capito twitter, ma non credo che le twitterate interessino a qualcuno, meglio trovare in serp l'articolo che linkato,  se ne linkano uno. Non credi?
Non capisco questa frenesia nel real search troppo legato a questo tipo di social. Se twitter, come altri social, è seguitissimo significa che non comprendo qualcosa. In poche parole, come altri non sto li ad  esprimere i miei pensieri in 140 caratteri ma l'account lo uso solo per diffondere i contenuti dei miei siti che preferirei fossero indicizzati e raggiungibili direttamente e non tramite una twitterata. Non capisco come Google creda che gli utenti siano più interessanti a un twitter sforzandosi così tanto per indicizzarlo in real time, anzichè puntare sullo stesso procedimento per i veri contenuti, quelli che valgono.

Puntare sull'indicizzazione di contenuti interessanti in real time sarebbe certo positivo, ma la validità degli stessi non può essere mescolata e compromessa da qualche twitterio lanciato dal non mai capito twitter. In serp vorrei trovare ciò che cerco, e non un canticchio messo li solo perchè è postato su una piattaforma di social importante.

Passa il Decreto Romani, schema di attuazione di un decreto legislativo che dovrebbe puntare all' "Attuazione della Direttiva Europea sul Commercio Elettronico". Ma sulla rete le perplessità sono quasi invariate rispetto alla prima esposizione presentata a giudizio del Consiglio dei Ministri e che aveva allarmato tutti prefigurando internet come una televisione, sottoposta a regole e obblighi vari. Qualcosa è cambiato, in meglio per fortuna. Infatti, nel decreto si legge che sono esclusi dall’obbligo di autorizzazione i motori di ricerca, i blog, i siti tradizionali, i giornali e i siti di giochi online, cioè (come si legge nel Decreto Romani, Art. 4) “i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale”.

Decreto Romani. Siamo tutti una tv?

Pericolo scampato dunque; nessun divieto per i blogger di pubblicare filmati online senza un’autorizzazione ministeriale. Purtroppo, dopo una approssimativa lettura, da nessuna parte si legge che gli ISP siano esclusi da responsabilità, come recita chiaramente la direttiva. Quindi resta il dubbio, vedi l'ultima sentenza Google, se i trasportatori di contenuti di altri abbiano responsabilità.

Secondo il parere di alcuni esperti della rete, il Quintarelli sottolinea come ci sia un bug nel testo che purtroppo lascia adito a delle interpretazioni non certo favorevoli alla libertà della rete e allo sviluppo di servizi online di cui oggi è difficile solo pensare che non potrebbero esistere più. Duro anche il comunicato della Aiip (Associazione Italiana Internet Provider) che parla di Grande Fratello della rete.

Un altro contributo, di Alessandro Longo, individua altri aspetti poco chiari del Decreto Romani. Cos'è un sito privato? e che significa "fare concorrenza alla radiodiffusione televisiva "?

Internet tutta, è evidente, fa concorrenza alla televisione!! Io personalmente la tv non l'accendo da chissa quanto tempo.. e quindi tutti i siti che navigo sono concorrenti della radiotelevisione Risatona.

Per cybersquatting si intende quel fenomeno riferito ad un illecita attività di acquisizione della titolarità di nomi a dominio corrispondenti a marchi di aziende leader sul mercato - anche nomi di personaggi celebri -, al fine di realizzare un lucro derivante da una successiva vendita a prezzi esorbitanti a chi li richieda per diritto legittimo all'utilizzo nel diffondere il suo brand. Anche in Italia il fenomeno è abbastanza diffuso tanto da dover fare un accenno a cosa può fare un azienda che vede il suo Brand "inquinato" da un altro individuo che ne sfrutta il nome per i suoi interesse personali, sopratutto economici.

Il domain grabbing si è diffuso negli Stati Uniti alla fine degli anni novanta. Lo scopo di tale attività non è solo quella di acquistare nomi a dominio per poi rivenderli, ma anche deviare e sfruttare il traffico web generato sul sito web dell'azienda presa di mira. La giurisprudenza ha riconosciuto ai nomi a dominio, una forte valenza distintiva in grado di assurgere, di pari passo con lo sviluppo dell'economia digitale, il ruolo di segno distintivo importante. Il nome a dominio o domain name rappresenta dunque il nome con cui viene indicato e riconosciuto un dominio e, altrettanto, rappresentare una azienda, quanto un prodotto.

Un esempio recente di cybersquatting riguarda il lancio del iPhone della Apple. In contemporanea all'uscita britannica del smartphone Apple, decine di domini hanno scelto nel nome Apple. Ancora più clamorosa è stata la notizia della registrazione di circa 10.000 domini .eu intestati ad un unica persona, la cinese Zheng Qingyin, poi bloccati dall'organizzazione che gestisce i domini .eu, la EURid.

La registrazione di un nome a dominio è un'operazione abbastanza semplice ed economica ma da un punto di vista normativo nel buon esito di un acquisto è utile ricordare che comunque le regole italiane vigenti proibiscono espressamente la possibilità di poter operare sul domain name qualsiasi atto dispositivo come la vendita e l'affitto. Però l'acquisto di un dominio nel nostro paese, e consolidato dopo l'invio della Lar, può essere annullato quando un domain name viene "preteso" da chi ne detiene il marchio (basta solo che il nome dell'azienda, o un prodotto realizzato dalla stessa, abbia lo stesso nome contenuto nel domain name). In Italia un'azienda che vede il proprio brand utilizzato da altri può procedere con una trattativa commerciale, ricorrere alla procedura di riassegnazione; attuare un ricorso all'arbitrato irrituale. Nel caso non si riesca a riconquistare il proprio brand online si può intentare un procedimento ordinario presso un Tribunale della Repubblica.

Erano accusati anche di diffamazione i quattro dirigenti Google, ma il giudice li ha condannati a sei mesi solo per il secondo capo di imputanzione, violazione della privacy. Per il primo caso di imputazione, i quattro sono stati assolti perche il fatto non sussiste (così si legge in autorevoli giornali) mentre tre di essi sono stati condannati per violazione delle privacy. A tal proposito sarà interessantissimo leggere la motivazione del giudice per questa assoluzione che sicuramente farà storia nel mondo delle leggi su internet. Ma è certo anche che la condanna per la privacy non è certo un fatto positivo per la libertà di internet e sopratutto per i servizi che sussitino oggi in rete, come i social network, Google news, youtube.

Il fatto già lo si conosce. Si tratta di un video che ritrae dei maltrattamenti di alcuni compagni di classe ad un ragazzo con problemi ed inserito su GoogleVideo. Per questo filmanto scatta la denuncia da parte dei genitori (poi ritirata) a cui si sono costituiti parte civile nel processo un associazione ed il Comune di Milano. Il fatto in se è increscioso.. .come si fa a pubblicare un video così? a diffonderlo?

Ma come fa Google a controllare? E poi... ne ha obbligo?

Peter Fleischer - Privacy Counsel di Google - ricostruisce la vicenda ricordando che Google ha rimosso il video dopo la segnalazione e collaborato alle indagini: «A fine 2006, alcuni studenti di una scuola di Torino si sono filmati mentre maltrattavano un compagno di classe affetto da autismo e hanno caricato il video su Google Video. Vista la natura assolutamente riprovevole del video, è stato rimosso a distanza di poche ore dalla notifica della Polizia. Abbiamo inoltre collaborato con la polizia locale per l'identificazione della persona che lo ha caricato, che è stata poi condannata dal Tribunale di Torino a 10 mesi di lavoro al servizio della comunità, e con lei diversi altri compagni di classe coinvolti. In casi come questo, rari ma gravi, è qui che il nostro coinvolgimento dovrebbe finire. Per essere chiari - dice Fleischer - nessuno dei quattro Googlers incriminati ha avuto niente a che fare con questo video. Non vi erano rappresentati, non lo hanno ripreso, caricato o rivisto. Nessuno di loro conosceva le persone coinvolte e non hanno saputo dell'esistenza di questo video fino a quando non è stato rimosso».

Interessante anche un altro passaggio della nota di Peter Fleischer: «La Legge Europea è stata definita appositamente per mettere gli hosting providers al riparo dalla responsabilità, a condizione che rimuovano i contenuti illeciti non appena informati della loro esistenza. (ndr vedi Art.15) La motivazione, che condividiamo, è che questo meccanismo di "segnalazione e rimozione" avrebbe contribuito a far fiorire la creatività e la libertà di espressione in rete proteggendo al contempo la privacy di ognuno. Se questo principio viene meno e siti come Blogger o YouTube sono ritenuti responsabili di un attento controllo di ogni singolo contenuto caricato sulle loro piattaforme - ogni singolo testo, foto, file o video - il Web come lo conosciamo cesserà di esistere, e molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici ad esso connessi potrebbero sparire. Si tratta di questioni di principio importanti, ed è per questa ragione che continueremo a sostenere i nostri colleghi in tutto il percorso dell'appello».

Quindi il discorso di sposta sulla responsabilità di un gestore di un sito quando un utente posta un contenuto nel suo blog, un post nel forum, o un semplice commento. Non ci sentiamo di anticipare, non avendo ne basi ne conoscenze, la motivazione dell'assoluzione per diffamazione - come si legge sul web non sia stato riconsciuto il dolo - ma sembra sensato pensare come il giudice abbia intenso impossibile effettuare un controllo su materiale diffamante inserito in un "aggregatore" (forse tutti i servizi di google potrebbero essere così catalogati) dove vengono immessi numerosissimi contenuti. Si può anche presumere come non sia identificabile, non essendo google una testata giornalistica, il direttore responsabile che doveva controllare tanto quanto l'editore e lo stampatore (queste figure in un sito non registrato al tribunale come testata giornalistica non esistono).

Sulla sentenza si esprime anche Marco Pancini, responsabile dei rapporti istituzionali di Google Italia :" [...] un attacco ai principi fondamentali di liberta' sui quali e' stato costruito Internet. La normativa vigente e' stata definita appositamente per mettere gli Internet service provider al riparo dal danno di responsabilita', a condizione che rimuovano i contenuti illeciti non appena informati della loro esistenza. Se questi principi vengono meno, e se siti come i blog, Facebook, Youtube vengono ritenuti responsabili del controllo di ogni video, significherebbe la fine di Internet come oggi lo conosciamo, con tutte le conseguenze politiche e tecnologiche. Si tratta di principi per noi importanti, percio' continueremo a seguire i nostri colleghi in appello".

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